Secondo alcune delle menti più avanzate, c’è una buona probabilità che la percezione della nostra visa di tutti i giorni sia esattamente paragonabile a quanto la trilogia di Matrix ci ha mostrato al cinema. Scendendo più nel concreto delle neuroscienze, sappiamo per certo che tutto ciò che vediamo, ascoltiamo, annusiamo e tocchiamo assume un significato che può essere lontano dalla realtà oggettiva. Ci siamo evoluti per sopravvivere alle notti più buie, davanti al fuoco, per osservare le differenze nel paesaggio e riconoscere le prede o evitare di essere predati, per ascoltare i rumori di pericolo e focalizzarci sulla comunicazione orale interpersonale, che a sua volta è stato elemento indispensabile per evolvere in capacità intellettive e socialità (chissà cosa capiterà ora che ci si scrive più che parlarsi).
Se prendiamo l’udito, motivo sufficiente per cui state leggendo queste pagine, il nostro range di frequenza è assai limitato rispetto agli animali (e così anche la vista) ma è ciò di cui abbiamo avuto bisogno per sopravvivere ed evolverci. Non c’è mai spreco di risorse nel corpo umano. Conoscere come percepiamo il suono e soprattutto il significato che diamo al timbro dovrebbe essere un corso specifico nel percorso di studi. Un urlo ha un contenuto in dinamica, frequenze e armoniche ben diverso da un sussurrato. Quando siamo in pericolo o vogliamo dare un senso di forza al dialogo, alziamo la voce, che acquista caratteristiche diverse nel timbro.
Se cominciamo a pensare con la logica della percezione, tutto l’arsenale a disposizione in uno studio di registrazione assume un ruolo più preciso: per esempio più distorsione armonica vuol dire più RMS e più attenzione che il nostro cervello presterà al suono. Più cambiamenti ci saranno, anche timbrici, più il nostro cervello starà sull’attenti e attratto dal messaggio.
Abbiamo coscienza di queste percezioni? Nella stragrande maggioranza dei casi nessuno si chiede che significato associamo a ciò che ascoltiamo: la nostra percezione e i significati a essa connessa, sono scritti in gran parte nel DNA, sono stati tramandati dalla preistoria e sono parte di noi da sempre. Nel momento in cui, però, cominciamo ad associare un suono, con tutte le sue particolarità, a un significato percepito, ecco comparire un altro campo di esplorazione estremamente interessante e più artistico in fase di mix e di produzione. Per anni si è usata la curva del loudness per dare impressione di un suono pieno anche a basso volume, abbiamo imparato a usare i delay e i riverberi per posizionare virtualmente il sound stage, abbiamo compreso come la distorsione di una chitarra attragga la nostra attenzione ben più di un suono pulitissimo. Ognuno di questi esempi, ma molti altri ce ne sarebbero, inganna il nostro cervello per offrire quella percezione che avremmo solo davanti a eventi particolari. Tutto il lavoro in studio, in produzione o in live, nasce per fornire un’esperienza piacevole ed emozionante senza richiedere che l’ascoltatore sia realmente presente su un palco, coinvolgendolo suo malgrado attraverso le più diverse tecniche di registrazione, mix e mastering. Ciò che conta, alla fine, è il messaggio che si vuole mandare, identificando gli elementi più importanti, che possono essere una voce, una traccia strumentale, un arrangiamento ma anche un effetto particolare. L’importante è attrarre l’attenzione e mantenerla.
Se volete seguire questa logica, troverete diversi esempi in questo numero: la seconda parte dello speciale Loudness che spiega come interpretare i valori, il test di Soundtheory Gullfoss (il primo eq per il mascheramento), l’Air Band dell’eq Mäag Audio EQ4M e l’interfaccia utente di Native Instruments Maschine MK III. Sono tutti esempi di come cambiare la percezione e ottenere risultati nuovi e più creativi. Il segreto è capire la percezione, il resto è conseguenza.
Luca Pilla