Dimenticate la liturgia dello studio di registrazione come tempio dedicato ed esclusivo per le produzioni. Indiehub sta cambiando le carte in tavola, con l’introduzione del co-working nella produzione musicale e nell’utilizzo dello studio di registrazione
Prima si ascoltano le produzioni realizzate ad Indiehub e, in poco tempo, ci si convince che la qualità del lavoro è eccellente, soprattutto per il suono caldo, avvolgente, analogico e apprezzabile facilmente anche in streaming. Poi si indaga e si arriva a Stefano Giungato e Andrea Dolcino, per scoprire che Indiehub è molto più che uno studio di registrazione: è una filosofia di lavoro moderna, pratica e aperta a tutti. Il co-working è l’altra metà del successo di Indiehub a Milano.
Luca Pilla: Come è nato Indiehub e con quale filosofia?
Andrea Dolcino: Indiehub è nato durante la prima diffusione dei co-working a Milano. Il nome stesso, sebbene possa rimandare al concetto di indie in musica, è ispirato al mondo dei co-working. La parola hub si riferisce a un luogo simile a un aeroporto, in cui le persone si incontrano in un panorama in cui sembra possa succedere qualcosa. Ogni tanto succede qualcosa, altre volte ognuno va per la sua strada. Quello che accomuna tutti è l’atmosfera della partenza, un misto di eccitazione e preoccupazione che fa da sfondo alle nuove opportunità, implicite in ogni partenza. La parola indipendent (Indie) si riferisce all’autonomia del nostro spazio: Indiehub è una società privata senza vincoli, libera di muoversi in un mercato in cui conta di più prendersi sul serio rispetto a essere presi sul serio: chi usa il nostro spazio lo percepisce. Se non ci prendiamo sul serio noi stessi sarà difficile che lo facciano gli altri. Per noi questo scenario è l’habitat ideale per far crescere il nostro progetto di uno studio di registrazione con grandi ambizioni ed è l'habitat ideale per chiunque voglia far crescere la propria attività nei vari settori dell'industria dello spettacolo e, più nello specifico, della musica. Il primo passo è: prendersi sul serio.
LP: Il concetto di co-working non è ancora molto diffuso nell’ambito della registrazione e produzione, quali sono i reali vantaggi per chi entra in questa logica di lavoro?
AD: Sin dall’inizio abbiamo seguito l’idea che il vantaggio del co-working risiedesse nella verticalità. Non tutti i co-working sono specializzati in un settore (verticali appunto). Per noi l’elemento co-working è il contenitore dei progetti, nel quale si condividono alcuni valori e alcune linee guida che di fatto possono essere applicate a qualsiasi stile e a qualsiasi business. Il co-working nel nostro caso non è un'operazione immobiliare o un'attività volta al profitto: è il contenitore in cui sviluppare attività senza compromessi qualitativi che debbono generare un profitto per essere sostenibili e che, pertanto, devono migliorare ogni giorno. Il co-working in se è come una cucina: uno spazio attrezzato in cui la differenza la fa lo chef. I co-working, dal nostro punto di vista, sono basati sulle persone che li gestiscono in primo luogo. Il principale vantaggio del nostro co-working è l’opportunità di far incontrare le persone, di condividere problemi e soluzioni con una regia basata su valori e strategie condivise. Secondariamente vi è un vantaggio economico: i co-working, dal punto di vista di chi li utilizza, sono servizi a consumo. Ogni attività, piccola o grande, ha il problema dei costi fissi. Il co-working è un costo che può essere tagliato in qualsiasi momento, molto più facilmente che cambiare fornitore telefonico. Non vi sono cauzioni o penali. Si paga quello di cui si ha bisogno, quando se ne ha bisogno. Attualmente, per esempio, una delle regie ospita Mitsuhide Music srl (www,mitsuhidemusic.com), che ha creato soundtrack e sound design per Mediaset, Technogym e Thun.
LP: Chi ha lavorato sull’acustica dello studio?
AD: La regia del nostro studio è stata progettata da Dario Paini e realizzata da Claudio Nordio. Successivamente abbiamo realizzato altre due regie nello spazio di co-working connesse alla sala ripresa pre-esistente (e a disposizione del co-working) sotto la direzione di Marco De Paolis e il controllo della risposta acustica curata dal nostro Stefano Giungato. Per quanto ci riguarda, il progetto acustico dello studio è, insieme al monitoring, il punto di partenza per portare il proprio lavoro a un livello superiore. Ma quello che serve per ottenere un buon progetto acustico, oltre i calcoli matematici ed empirici, sono le orecchie. Stefano, socio di Indiehub e capo delle produzioni, ha potuto lavorare in molti degli studi più importanti, grazie a questa sua esperienza è in grado di valutare con cognizione di causa la risposta di una stanza acusticamente trattata e di ottenere il massimo da quello che comunque è sempre un compromesso.
LP: Come avete progettato lo studio di registrazione?
AD: Lo studio di registrazione INDIEHUB è stato progettato sin dall’inizio per lavorare con produzioni di musica acustica, soprattutto per quanto riguarda il recording. Il jazz in particolare ha delle esigenze specifiche: non è possibile, trattandosi di una musica basata sulla performance, far passare più di 60 minuti dall’arrivo dei musicisti alla prima take. Questi 60 minuti includono tutto, caffè, convenevoli, posizionamento degli strumenti, setup, ascolti in cuffia ecc. Il poco tempo a disposizione non lascia spazio per errori o approssimazioni: appena indossano le cuffie i musicisti devono avere già un suono da disco nelle orecchie. Anche se l’utilizzo dei mixer personali (nel nostro caso Hear Back system di Hear Technologies) è fondamentale, è altrettanto indispensabile che il fonico sappia molto bene il fatto suo e abbia una particolare sensibilità. Questa premessa descrive lo scenario in cui abbiamo progettato lo studio che si è poi rivelato prezioso anche per le produzioni di musica leggera (pop in particolare, in tutte le sue sfaccettature). Le nostre scelte sono basate prima di tutto sull’esperienza del nostro capo per quanto riguarda l’aspetto tecnico e produttivo, Stefano Giungato. Secondariamente sono basate sulla necessità di avere attrezzatura nuova, analogica, affidabile e senza compromessi qualitativi. In questa ottica la nostra scelta è ricaduta sulla console di API, modello 1608 completo dei suoi equalizzatori, dei compressori 525 e 527, oltre ad altri outboard senza compromessi. Questo banco è uno dei pochi in classe A completamente discreto e, sebbene sia famoso per essere un banco rock e di grande personalità, trattandosi di un dispositivo di nuova realizzazione offre una dinamica eccezionale e, quando i canali non vengono saturati, offre anche pulizia e trasparenza in grado di accontentare i palati audiofili. Il suo routing inoltre è semplice e super flessibile. Via patchbay è praticamente possibile collegare tutto a tutto: inoltre, non essendo un banco computerizzato, è di facile utilizzo anche per fonici e produttori esterni che non hanno mai utilizzato l’API 1608. In registrazione questo banco fa la differenza: ci è capitato più volte di mixare tracce molto buone ma non realizzate da noi. Le sorgenti che registriamo con questo banco hanno decisamente qualcosa in più. Sembra una magia ma ogni take appare più ampia, corposa e armonica. Per quanto riguarda gli ascolti, abbiamo indagato molto per poter trovare il modello adatto alle nostre esigenze. Facciamo moltissimo lavoro conto terzi e il tempo è uno dei nostri primi problemi. Le Amphion Two18, monitor passivi con il loro amplificatore, per i produttori che amano lavorare senza bass reflex, sono in assoluto i monitor più affidabili che abbiamo provato. La cosa che ci ha più impressionato è la loro linearità e perfetta traduzione del mix. Grazie alle Amphion le sorprese da car test sono ridotte quasi allo zero. È molto importante ottenere subito (per subito intendo sempre meno di un’ora) un mix convincente all’80%, senza sorprese. Oltre alle Amphion utilizziamo le ATC SCM50, attive. Tutto un altro mondo e un altro budget. Sono precise e preziose in molteplici occasioni: in mastering, per correggere i dettagli e per offrire un pronto ascolto piacevole e lussuoso ai musicisti. Inoltre le ATC, in fase di recording, non stancano l’orecchio anche a volumi piuttosto sostenuti. Oltre a questi principali ascolti abbiamo anche le piccole Reftones che ci aiutano per i mix su piccoli impianti e per un ascolto critico e focalizzato sulle medie. Nello studio B invece abbiamo installato una coppia di Yamaha NS10 e una di Focal SM9. Degli ascolti niente male per uno studio B.
LP: ATC e Amphion, quali le differenze più nette?
AD: ATC e Amphion producono monitor dalla qualità indiscutibile. ATC fa della dinamica e del dettaglio il suo punto forte, così forte che a volte perde di vista la realtà, dal nostro modesto punto di vista. Sulle nostre ATC abbiamo un suono ricco, preciso, dettagliato e avvolgente. Soprattutto nelle registrazioni acustiche le ATC restituiscono un realismo senza confronti. A volte però tutta questa bellezza si scontra con la traduzione dei mix nel mondo reale, fatto di impianti quasi mai capaci di riprodurre la dinamica e le sfumature che si possono apprezzare con dei monitor del livello delle ATC. Quindi ci spostiamo sulle Amphion, la loro capacità di riprodurre la verità è davvero impressionante. I nostri mix fatti lavorando con le Amphion li riconosciamo anche riascoltandoli nei più disparati impianti: dalle cuffiette dell’iPhone all’impianto da mille mila euro da audiofili. Il nostro equilibrio di monitoring con ATC e Amphion è basato sul mix di precisione, realismo e dettaglio con ATC, e linearità, traduzione, panorama stereofonico e posizionamento del mix con Amphion.
LP: La console API può colorare il suono, che impressione vi siete fatti in questi anni di uso?
AD: Una console come l’API 1608 non limita sonoramente in nessun modo. Nella musica elettronica a maggior ragione può fare la differenza aiutando a dare spessore e profondità a suoni a volte un po’ troppo perfettini. Cerchiamo di dare vitalità a situazioni completamente virtual perché il suono, anche se bilanciato, molte volte può risultare anonimo e piatto. In ogni caso, sia che si faccia esclusivamente una somma di un missaggio, sia che si faccia una registrazione di sintetizzatori VST o hardware, l’API fa una grossa differenza restituendo realismo.
LP: Parliamo di outboard, su cosa vi siete concentrati?
AD: La scelta dell’outboard è basata su due requisiti: nessun compromesso qualitativo e nessuna macchina superflua. Il nostro setup è minimale e snello. Forse visto dal punto di vista degli appassionati non professionisti può sembrare tanta roba, ma la realtà ci ricorda tutti i giorni che non c’è mai una macchina di troppo per lavorare ad alto livello. Poche macchine e molto furbe. Oltre ai 16 preamplificatori del banco usiamo una coppia di Neve 1073 e una coppia di Thermionic Culture. Questi ultimi sono valvolari e li preferiamo agli Universal Audio perché possono essere più gentili come dinamica e come suono. Come compressori, oltre ai già citati 525 e 527 di API, usiamo Neve 2264ALB, Empirical Labs Distressor, Thermionic Culture The Phoenix e Maselec MLA2. Come eq, oltre agli API, usiamo il GML8200 e il Maselec MEA2, inoltre abbiamo anche il Thermionic Culture Fat Bustard come somma aggiuntiva ed eq. Come riverbero corto abbiamo un Eventide 2016, mentre come riverbero lungo l’insostituibile Bricasti M7. Poche altre cose, ma sempre senza compromessi.
LP: Lavorate molto nel campo del jazz, quali convertitori usate?
AD: Come convertitori multitraccia utilizziamo 32 in/out Avid HD I/I (un altro mondo rispetto alle precedenti Digidesign 192) e come convertitore stereo utilizziamo il Lavryblue di Lavry Engineering. Tutto il setup è valorizzato dal cablaggio elettrico di altissimo livello tenuto costantemente sotto controllo da uno stabilizzatore industriale. Il cablaggio audio di ottima qualità ci restituisce tutta la dinamica del nostro parco microfoni e strumenti.
LP: Veniamo ai microfoni.
AD: Sui microfoni utilizziamo modelli piuttosto standard, di fascia altissima. Facendo molte riprese, non possiamo fare a meno di nessun microfono, ma certamente il Brauner VM1 è quello che utilizziamo maggiormente nei contesti più vari. Segnalo anche l’importanza dei DPA 4006TL che utilizziamo costantemente per le riprese del nostro pianoforte Steinway & Sons D274.
LP: Qual è la vostra esperienza con Mastered for iTunes e altri streaming online? Cosa usate come software per controllare in anticipo come suonerà il pezzo?
AD: Mastered for iTunes alla fine non è altro che una serie di linee guida per evitare che un file WAV risulti distorto digitalmente dopo la conversione in AAC. Sicuramente aiuta a evitare file distrutti sulle piattaforme digitali. Il nostro workflow ci porta a lavorare quasi sempre a 96 kHz, 24 o 32 bit. Questo ci consente di produrre master nativi a 96 kHz che sono il formato ideale per la produzione di qualsiasi sotto prodotto digitale. Come monitoring dei vari formati ci siamo affidati ad iZotope Ozone ma stavamo anche valutando il Sonnox Fraunhofer Pro-Codec (siamo dei Sonnox addicted). Per quanto riguarda il check dei file MFIT ci affidiamo ai tool di Apple per il check degli overload anche se è un tool molto scomodo da utilizzare. Per fortuna il mondo dello streaming e delle piattaforme digitali stanno pian piano facendo diminuire la richiesta da parte di produttori e musicisti del livello più alto possibile di mastering, la famosissima loudness war. Ultimamente stiamo consegnando più lavori con una dinamica meno sacrificata e la cosa ci piace moltissimo. Non si fanno più i confronti questo CD suona più forte di quest’altro perché in effetti il CD si usa sempre di meno e con la fruizione di musica liquida la percezione di cosa suona più o meno forte sembra essere meno palese.